Studenti:
riprendiamo la mobilitazione!
La necessità di
riorganizzare la protesta studentesca contro il governo
di Claudio Mastrogiulio
(*)
Nei mesi scorsi, su tutti i mezzi di
informazione borghesi ha occupato il proscenio delle notizie di prima pagina la
lotta del mondo studentesco contro la legge 133/2008.
Settimane intere scandite da occupazioni, manifestazioni, sit-in davanti al
Ministero dell’Istruzione, lezioni all’aperto. Elementi che fanno ben
comprendere alla pubblica opinione il grado della mobilitazione raggiunta da un
movimento che, negli ultimi due anni di governo Prodi, non aveva avuto la
capacità di esprimere la medesima spinta propulsiva. Diversi gli elementi di
questa mobilitazione che permettono di affermarne il grado pronunciato di
radicalità: riappropriazione del luogo di studio rispetto all’attacco
tentacolare del mercato capitalistico e delle sue logiche; radicalizzazione
delle parole d’ordine, con il definitivo abbandono della concezione (fuorviante)
per cui la crisi economica colpisca tutta la società (lo slogan “noi la crisi
non la paghiamo” è significativo); l’unità (per quanto solamente iniziata) con
il mondo del lavoro.

L’unità tra lavoratori e
studenti
Quest’ultimo è l’elemento su cui si incentra
tutta la questione: l’unità tra la lotta studentesca e il mondo del lavoro
salariato. Numerose sono state le occasioni per manifestare questo
imprescindibile sodalizio: dallo sciopero del sindacalismo di base del 17
ottobre, alla manifestazione (dolosamente tardiva) della Cgil del 30 ottobre
arrivando all’ulteriore manifestazione targata Cgil del 12 dicembre. In questi
casi occorre muovere una critica al movimento per consentirgli di poter superare
un limite manifestatosi in modo evidente. A questa commistione di interessi
(abolizione legge 133, abolizione leggi precarizzanti etc) avrebbe dovuto
accompagnarsi una monolitica unione tattica. Tale obiettivo si raggiunge con un
costante e duraturo recupero della coscienza di classe che sia in grado di
riaffermare il principio per cui la lotta degli studenti è anche quella dei
lavoratori e viceversa. Al contrario abbiamo assistito, attraverso un processo
politico posto in essere dalle organizzazioni che hanno monopolizzato la
direzione del movimento (della cui base riaffermiamo con forza la genuinità), a
teorizzazioni che marciavano in senso contrario, alcune delle quali verranno
esaminate in seguito.
La prima manifestazione di questi fantasiosi esercizi di stile (neanche troppo riusciti!) è stata l’insinuazione del messaggio per cui nell’attualità dell’oggi non sia più possibile parlare di classe operaia nel senso universalmente inteso; ciò perché, secondo questi epigoni del negrismo, l’operaio negli ultimi anni si è imborghesito (confondendo così, in modo imperdonabile, la classe operaia con le burocrazie sindacali le cui potenzialità imbrigliano) e dunque occorre che riacquisisca la capacità di mobilitarsi imparando dall’esperienza degli studenti. Viene così completamente stravolto un caposaldo centrale per chiunque voglia innestare nell’attualità elementi di progressività radicali, quello cioè della centralità della classe operaia.
La prima manifestazione di questi fantasiosi esercizi di stile (neanche troppo riusciti!) è stata l’insinuazione del messaggio per cui nell’attualità dell’oggi non sia più possibile parlare di classe operaia nel senso universalmente inteso; ciò perché, secondo questi epigoni del negrismo, l’operaio negli ultimi anni si è imborghesito (confondendo così, in modo imperdonabile, la classe operaia con le burocrazie sindacali le cui potenzialità imbrigliano) e dunque occorre che riacquisisca la capacità di mobilitarsi imparando dall’esperienza degli studenti. Viene così completamente stravolto un caposaldo centrale per chiunque voglia innestare nell’attualità elementi di progressività radicali, quello cioè della centralità della classe operaia.
La debolezza della prospettiva emersa alla
Sapienza
Un altro tipo di critica che occorre muovere alle direzioni
che sono riuscite ad imporsi a un movimento che in queste settimane sta vivendo
una fase di preoccupante riflusso,è quello sulla arretratezza politica della
strategia elaborata nella “due giorni” del 14 e 15 novembre all’università “La
Sapienza” di Roma.
Anzitutto il concetto di “autoriforma”; le considerazioni che ci portano a giudicare l’insostenibilità di tali scelte strategiche sono consequenziali ad un principio molto semplice: non è possibile curare con un’aspirina un malato di cancro!. Spieghiamoci meglio: il significato stesso di “riforma” affonda le proprie radici nella sostanziale accettazione dello stato di cose presenti. Così proseguendo la dissertazione si condurrebbero gli studenti che sinceramente hanno aderito alla protesta dei mesi scorsi verso una conclusione completamente mistificante, quella per cui sarebbe possibile la creazione di una sorta di Eden (l’università) completamente estraneo alla realtà che lo circonda. Osservando la Storia, sappiamo bene che pensare ciò è irrealistico e fuorviante per il semplice fatto che l’ossatura di un sistema sociale è costituita principalmente dal proprio indirizzo economico. Occorre sottolineare l’irrealizzabilità di questa prospettiva e proporre altri orizzonti politico-strategici per rivitalizzare questo straordinario movimento. Certamente uno di questi non può essere "l’autoriforma" per i motivi che sono stati precisati a cui necessita aggiungere l’inattendibilità di un anacronismo storico quale quello dell’abbandono della centralità della classe operaia. Riaffermiamo questa realtà non in base ad un astratto misticismo (che non ci appartiene) verso l’approccio del marxismo, ma “solamente” perché è l’effettività dell’intero sistema economico a marciare in tal senso. Non corrisponde al vero un’affermazione che taluni hanno avuto l’ardire di proferire per cui “dagli studenti si ricava plusvalore”. Entrando nel merito della disquisizione verrebbe subito da porre le seguenti domande: “quale plusvalore?” e soprattutto “quando questo plusvalore viene sottratto?”. Risposte a tali domande retoriche non ve ne sono semplicemente perché la questione è posta in termini erronei e probabilmente anche perché non si ha ben chiaro cosa sin intenda per “plusvalore”. Non ci interessa in questo ambito una chiarificazione del concetto di “plusvalore”; quel che è di fondamentale importanza è spiegare la contraddizione in termini di cui sopra: l’unico plusvalore che il governo può trarre dall’apparato universitario è quello derivante dai tagli (presenti in larga misura nella legge 133/2008) inferti all’insieme del personale che costituisce quella moltitudine (non in senso negriano, anzi) di operatori sottopagati grazie ai quali l’università italiana continua ad evitare il collasso sotto il peso delle inefficienze e delle cecità legislative susseguitisi negli ultimi venti anni. Parliamo di lavoratori, precari, ricercatori, studiosi costretti a vedere messo in pericolo il proprio posto di lavoro (sia esso manuale od intellettuale) sull’altare del finanziamento statale a quei soggetti che questa monumentale crisi hanno procurato; cioè quei poteri forti (banche, Confindustria etc.) verso le quali l’azione di un movimento radicale ed incisivo dovrebbe rivolgersi.
Alcuni numeri possono fare ben comprendere il senso di quanto detto in precedenza: la legge 133/2008 ha stabilito 1.441.500.000 euro di riduzione della spesa pubblica verso il sistema dell’Istruzione entro i prossimi cinque anni, favorendo al contempo (tanto per citare solo due esempi della benevolenza governativa verso gli interessi padronali) politiche di abbattimento dell’Ici e la scriteriata scelta riguardante Alitalia. Nel primo caso si preferito sostenere la proprietà individuale piuttosto che una politica di edilizia popolare seria e costruttiva che ponga fine ad un’ingiustizia odiosa come quella di affitti ad un grado usurario; nel secondo caso si è scelto di far prevalere le non-ragioni di un manipolo di imprenditori in ossequio al principio di tutela governativa degli interessi dei poteri forti.
Anzitutto il concetto di “autoriforma”; le considerazioni che ci portano a giudicare l’insostenibilità di tali scelte strategiche sono consequenziali ad un principio molto semplice: non è possibile curare con un’aspirina un malato di cancro!. Spieghiamoci meglio: il significato stesso di “riforma” affonda le proprie radici nella sostanziale accettazione dello stato di cose presenti. Così proseguendo la dissertazione si condurrebbero gli studenti che sinceramente hanno aderito alla protesta dei mesi scorsi verso una conclusione completamente mistificante, quella per cui sarebbe possibile la creazione di una sorta di Eden (l’università) completamente estraneo alla realtà che lo circonda. Osservando la Storia, sappiamo bene che pensare ciò è irrealistico e fuorviante per il semplice fatto che l’ossatura di un sistema sociale è costituita principalmente dal proprio indirizzo economico. Occorre sottolineare l’irrealizzabilità di questa prospettiva e proporre altri orizzonti politico-strategici per rivitalizzare questo straordinario movimento. Certamente uno di questi non può essere "l’autoriforma" per i motivi che sono stati precisati a cui necessita aggiungere l’inattendibilità di un anacronismo storico quale quello dell’abbandono della centralità della classe operaia. Riaffermiamo questa realtà non in base ad un astratto misticismo (che non ci appartiene) verso l’approccio del marxismo, ma “solamente” perché è l’effettività dell’intero sistema economico a marciare in tal senso. Non corrisponde al vero un’affermazione che taluni hanno avuto l’ardire di proferire per cui “dagli studenti si ricava plusvalore”. Entrando nel merito della disquisizione verrebbe subito da porre le seguenti domande: “quale plusvalore?” e soprattutto “quando questo plusvalore viene sottratto?”. Risposte a tali domande retoriche non ve ne sono semplicemente perché la questione è posta in termini erronei e probabilmente anche perché non si ha ben chiaro cosa sin intenda per “plusvalore”. Non ci interessa in questo ambito una chiarificazione del concetto di “plusvalore”; quel che è di fondamentale importanza è spiegare la contraddizione in termini di cui sopra: l’unico plusvalore che il governo può trarre dall’apparato universitario è quello derivante dai tagli (presenti in larga misura nella legge 133/2008) inferti all’insieme del personale che costituisce quella moltitudine (non in senso negriano, anzi) di operatori sottopagati grazie ai quali l’università italiana continua ad evitare il collasso sotto il peso delle inefficienze e delle cecità legislative susseguitisi negli ultimi venti anni. Parliamo di lavoratori, precari, ricercatori, studiosi costretti a vedere messo in pericolo il proprio posto di lavoro (sia esso manuale od intellettuale) sull’altare del finanziamento statale a quei soggetti che questa monumentale crisi hanno procurato; cioè quei poteri forti (banche, Confindustria etc.) verso le quali l’azione di un movimento radicale ed incisivo dovrebbe rivolgersi.
Alcuni numeri possono fare ben comprendere il senso di quanto detto in precedenza: la legge 133/2008 ha stabilito 1.441.500.000 euro di riduzione della spesa pubblica verso il sistema dell’Istruzione entro i prossimi cinque anni, favorendo al contempo (tanto per citare solo due esempi della benevolenza governativa verso gli interessi padronali) politiche di abbattimento dell’Ici e la scriteriata scelta riguardante Alitalia. Nel primo caso si preferito sostenere la proprietà individuale piuttosto che una politica di edilizia popolare seria e costruttiva che ponga fine ad un’ingiustizia odiosa come quella di affitti ad un grado usurario; nel secondo caso si è scelto di far prevalere le non-ragioni di un manipolo di imprenditori in ossequio al principio di tutela governativa degli interessi dei poteri forti.
La necessità delle necessità:
riprendere la mobilitazione
Detto questo riteniamo sia imprescindibile
affermare un principio che si incardina nelle seguenti parole d’ordine: il
rilancio immediato della mobilitazione; democrazia interna nell’ambito delle
strutture del movimento studentesco con delegati eletti democraticamente e
revocabili in ogni momento; coordinare a livello nazionale tutte le più
importanti esperienze di lotta; seguire l’esempio francese del 2007 rispetto
all’imprescindibile unità con il mondo del lavoro.
(*) Studente a La Sapienza,
Roma