Dove finisce
realmente
il denaro
pubblico
di Alberto
Madoglio
«Non è il tempo di scardinare i pilastri del
nostro sistema, da quello pensionistico a quello fiscale», così il premier
Gentiloni si è espresso lo scorso 18 gennaio durante una conferenza stampa. A
ulteriore sostegno delle parole del presidente del consiglio, il Fondo Monetario
Internazionale così si è pronunciato: «il voto non freni le riforme»
(Corriere della Sera del 23/1/2018).
Le ragioni di queste prese di
posizione, che chiudono ogni possibilità di modifica nelle politiche di
austerità fino a oggi seguite, si fondano, per chi le esprime, sostanzialmente
su due elementi: una crescita economica molto più debole rispetto a quella dei
Paesi più sviluppati, e l’enorme debito pubblico (oltre 130% del Pil) che grava
sulle finanze statali. Specialmente per quanto riguarda il rapporto debito-Pil,
la vulgata comune è che la popolazione italiana abbia per molto tempo vissuto
"al di sopra delle proprie possibilità": quindi ora sarebbe giunto il tempo di
fare i conti con la realtà e decidersi a fare i necessari sacrifici, anche se
dolorosi.
Siamo sicuri che le cose stiano realmente così? Noi non crediamo e
ci sforzeremo, nel breve spazio di questo articolo, di dimostrarlo. Sono quattro
le voci che analizzeremo a supporto della nostra tesi.
I
dipendenti pubblici
La prima riguarda il numero dei dipendenti
pubblici in Italia.
Secondo uno studio del parlamento europeo,
il numero dei dipendenti pubblici in Italia (al 2015) è sì leggermente superiore
alla media dell’Ue, ma il loro numero è in costante calo dal 2005 (circa il 6%
in meno). Per quanto riguarda il costo di questo personale, secondo la relazione
della Corte dei conti del 2016, nel quinquennio 2010/2014 si è avuta una
riduzione di oltre il 5%, alla quale, sempre secondo la magistratura contabile,
si deve aggiungere un altro 1% circa tendenziale per il 2015. Questo taglio è
dovuto alla cosiddetta spending review, che ha bloccato per oltre un
decennio il rinnovo del contratto dei dipendenti pubblici. Non abbiamo dati
relativi al costo dei dirigenti della pubblica amministrazione, ma possiamo
immaginare, anche da svariate notizie (nella maggior parte dei casi di stampo
scandalistico) apparse sui mezzi di informazione, che per questa categoria il
trend sia stato assolutamente differente, quindi deduciamo che il taglio dei
salari relativo ai livelli inferiori sia stato superiore al 6% indicato dalla
Corte dei conti.
La sanità
pubblica
La seconda voce riguarda le spese per la
sanità pubblica.
Anche in questo caso i dati non lasciano
molto spazio ai dubbi e alle interpretazioni. Gli aggiornamenti al Def prevedono
per il periodo che va dal 2017 al 2020 lievi aumenti nella spesa per la sanità
pubblica. Tuttavia quando si passa ad analizzare il rendiconto di quanto
effettivamente speso, si nota che tra il 2015 e il 2018 si verificherà una
riduzione del finanziamento a favore del Ssn di circa 11 miliardi di euro. Il
dato più allarmante lo fornisce però l’Organizzazione mondiale della sanità
(Oms). Secondo questa agenzia, che fa capo all’Onu, nel 2020 la spesa in questo
settore rapportata al Pil, scenderà per la prima volta sotto il tetto del 6,5%.
Per l’Oms sotto questa soglia si mette in discussione la tenuta stessa del
sistema e oltre alla qualità e alla quantità dell’assistenza, si riduce anche
l’aspettativa di vita delle persone. Stiamo parlando di quello che certamente
accadrà fra tre anni in una delle maggiori potenze imperialiste mondiali. Questo
mentre continuano ad aumentare i finanziamenti diretti e indiretti alla sanità
privata. Se questa è la situazione, la scelta della Cgil di continuare a siglare
rinnovi contrattuali in cui è previsto il ricorso alla sanità integrativa
attraverso polizze ad hoc (come recentemente fatto dalla Fiom, la cui
accettazione della polizza Metasalute rompe con un tabù del passato in materia),
sono dei veri e propri crimini contro i lavoratori. Le polizze sono una sorta di
cavallo di troia per smantellare la salute pubblica. E cosa resterà ai
lavoratori e soprattutto ai pensionati quando il Ssn sarà ridotto all’osso e le
assicurazioni private non saranno più in grado di garantire il rimborso delle
spese mediche perché ciò intacca i loro lauti profitti?
L'istruzione
pubblica
Il terzo settore riguarda l’istruzione pubblica.
Un articolo apparso sul Sole24Ore
del 23 gennaio informa che in Italia la spesa pubblica per l’istruzione è pari
al 4% del Pil, uno dei dati più bassi in Europa, mentre la spesa per
l’istruzione privata raggiunge il 3%. Quale sia il reale interesse, al di là
della propaganda, dei vari governi che si sono succeduti negli ultimi anni lo
possiamo vedere dalle innumerevoli riforme che hanno distrutto la scuola
pubblica: dalla riforma Gelmini alla cosiddetta "buona scuola", abbiamo
assistito a un continuo e drastico peggioramento della qualità della pubblica
istruzione. Edifici fatiscenti, blocco dei salari, licenziamenti e deportazioni
di insegnanti da una parte all'altra del Paese. Questi sono i lasciti di
centrodestra e centrosinistra. Da ultimo, le decine di migliaia di licenziamenti
che si preannunciano tra i maestri elementari sono la prova definitiva di quale
sia l’interesse in materia di padroni e governo: tagli e ancora
tagli.
Le
pensioni
Per ultimo, il tema che negli ultimi venti anni ha
per certi versi monopolizzato il dibattito politico e sindacale in Italia:
quello riguardante le pensioni.
Sul tema della “riforma” del sistema
pensionistico si sono avute, specialmente alla metà degli anni Novanta,
importanti momenti di mobilitazione e di lotta da parte delle masse lavoratrici.
Sia contro la riforma Berlusconi del 1994 che di quella Dini del 1995 abbiamo
avuto la dimostrazione di come il crinale che divideva i contendenti fosse
quello di classe, non il fantomatico conflitto generazionale.
Lo sciopero che fece crollare come un
castello di carte il primo governo di centrodestra vide schierati giovani e
lavoratori, studenti, pensionati e disoccupati dalla stessa parte della
barricata, contro il tentativo di governo e Confindustria di far pagare alle
classi subalterne il prezzo della crisi che dal ’92-‘93 aveva travolto il Paese.
Se la sconfitta del nostro avversario di classe non fu definitiva, tant’è che la
riforma Dini del ‘95 raggiunse gli obiettivi richiesti dai padroni, fu solo
grazie al tradimento sindacale, della Cgil in primo luogo. Per non opporsi
frontalmente ad un governo di centrosinistra, il sindacato anziché chiamare
nuovamente alla mobilitazione i lavoratori, scelse la via indolore del
referendum per giudicare l’accordo raggiunto con esecutivo e padroni. E quanto
fu chiaro che il risultato sarebbe stato negativo per l’apparato sindacale, non
si esitò a truccarne il risultato.
Negli anni poi ci furono varie ulteriori
contro-riforme del sistema pensionistico, fino ad arrivare alla famigerata legge
Fornero. Anche in quel caso la scusa fu quella di salvare il Paese dal crack
finanziario. In realtà vennero salvati gli interessi della grande borghesia
mentre operai e impiegati videro aumentare dalla sera alla mattina,
letteralmente, l’età per poter andare in pensione.
La risposta delle
burocrazie a questo brutale attacco la ricordiamo tutti: tre ore di sciopero
generale e niente più. Nonostante tutto questo, nonostante la risposta operaia
non sia stata per nulla paragonabile a quella di venticinque anni fa, né
minimamente adeguata alla posta in gioco, è sul tema delle pensioni che il
sindacato, o meglio i suoi gruppi dirigenti, si confrontano con la sfiducia e la
rabbia operaia. Tutti riconoscono che a sette anni dalla riforma Fornero-Monti,
in ogni assemblea sui posti di lavoro, i funzionari di Cgil, Cisl e Uil si
devono scontrare con la rabbia di chi si è sentito tradito dagli stessi soggetti
verso cui aveva riposto speranze. E questo nonostante anni di martellante
campagna sul già citato, fantomatico "scontro generazionale".
Fatta questa
non breve, ma crediamo necessaria, premessa, cerchiamo di capire quale sia
realmente lo stato del sistema pensionistico nazionale.
Già oggi l’età in cui
può accedere alla pensione un lavoratore italiano è la più alta di tutta
l’Unione europea.
La percentuale di spesa per le pensioni (circa il 15% del
Pil, maggiore che in altri Paesi) si riduce, secondo uno studio fatto da un
esperto della materia, Massimo Brambilla, a circa il 12 se si tolgono le voci
relative all’assistenza, che dovrebbero essere a carico della fiscalità
generale. In proposito non sono assolutamente fondate le posizioni di chi, come
Giuliano Cazzola (ex dirigente sindacale di area craxiana, poi passato al
berlusconismo più combattivo, approdato successivamente sulle sponde del
montismo, fino a trovare oggi un porto sicuro nell’area di Renzi) sostiene che
queste somme sono comunque versate all’Inps ogni anno dallo Stato. Se la
separazione tra previdenza e assistenza fosse attuata, sarebbe molto più
difficile per governo e padroni affermare che le pensioni dei lavoratori non
sono finanziariamente sostenibili senza una serie infinita di tagli. Così come
sarebbe molto più complicato nel caso i circa 100 miliardi di euro di
trasferimenti apparissero come fabbisogno statale giustificare i continui sgravi
fiscali di cui, in vari modi, beneficiano grandi gruppi industriali, banche e
assicurazioni.
Tutto quello che fino ad ora abbiamo ricordato si traduce in
un dato incontestabile, fornito direttamente dal Ministero dell’Economia e delle
Finanze (Mef). Secondo il dicastero di via XX Settembre, l’Italia dal 1995 al
2014 ha avuto un avanzo primario di bilancio (cioè la differenza tra entrate e
uscite prima del pagamento degli interessi del debito pubblico) per 19 su 20.
Nessuno dei maggiori Paesi d’Europa (Germania, Francia, Gran Bretagna, Spagna)
ha mai raggiunto simili livelli di “disciplina fiscale”.
Questo dimostra, lo
ripetiamo, che la grave situazione in cui si trova la finanza pubblica tricolore
non è assolutamente dovuta a un eccesso di generosità a favore di lavoratori,
studenti, pensionati.
Allora, come mai il debito pubblico aumenta di
continuo, non solo in termini relativi (rispetto al Pil) ma anche
assoluti?.
Perché il
debito pubblico aumenta?
La risposta la forniscono due inchieste che,
negli ultimi mesi, sono apparse su l’Espresso (che ha svolto un buon
lavoro di indagine) e sull’inserto economico di Repubblica (Affari
e Finanze).
L’inserto in questione nel numero del 22
gennaio riportava uno studio dell’ex commissario alla spendig review, in cui,
sorprendentemente, si notava come il debito pubblico sia destinato a salire da
qui al 2020 di 55 miliardi (al netto di 17 preventivati da una serie di
privatizzazioni). Si viene poi a scoprire che a contribuire a questo aumento non
sono le spese sociali, ma i 20 miliardi dati alle banche in occasione degli
ultimi salvataggi effettuati e i circa 60 causati dall’uso di derivati.
Nel
primo caso la vulgata comune vuole che i soldi dati alle banche siano stati dati
non per salvare i grandi azionisti, ma lavoratori e piccoli risparmiatori.
Niente di più falso. I risparmiatori, lavoratori che avevano messo da parte
piccole somme dopo una vita di lavoro, hanno visto nella quasi totalità dei casi
azzerati i loro risparmi. Per quanto riguarda i lavoratori delle banche,
ricordiamo solo la riduzione di posti di lavoro nel settore (circa 50.000 nello
scorso decennio e altri 20.000 o forse più nel giro di pochi anni) e i tagli di
salario che hanno dovuto subire.
Nel secondo caso, i governi dal 2011 hanno
utilizzato alcuni strumenti finanziari (derivati) per prevenire gli effetti
negativi sul debito negli anni più duri delle crisi. Ciò che però non dicono è
che, a quanto risulta, altri Paesi europei avevano usato strumenti simili, e
nessuno ha dovuto registrare perdite di tali dimensioni, anzi in alcuni casi si
sono registrati minimi guadagni. Dirigenti del ministero, poi diventati
ministri, come nel caso di Grilli e Siniscalco, sono ora alti papaveri di banche
che hanno guadagnato enormi somme di denaro dall’aver sottoscritto questi
contratti con il Tesoro. La stessa magistratura borghese li ha messi sotto
inchiesta, quantificando un danno per lo Stato di oltre 4 miliardi. Di fronte a
questi fatti incontrovertibili, il governo come ha reagito? Ha fatto appello al
segreto di Stato, anche nei confronti del Parlamento, rifiutandosi di rendere
pubbliche le clausole sottoscritte con le banche, e nonostante le gravissime
accuse a suo carico, ha mantenuto al posto di responsabile del Dipartimento del
Debito Pubblico, Maria Cannata. Rispetto a questo caso viene da sorridere
pensando a quale trattamento verrebbe assoggettato qualsiasi operaio o impiegato
semplicemente sospettato di aver rubato una biro o una risma di carta. E qui
parliamo di miliardi di euro di proprietà dei lavoratori. Ma perché stupirsi? Un
mandante non denuncia mai l’esecutore materiale di un crimine, anche se
presunto.
La democrazia delle
casseforti
La lezione da trarre da tutto questo è molto
semplice. Nonostante la martellante propaganda orchestrata dai partiti e dai
governi di centrodestra e centrosinistra, nonostante l’insipienza di sindacati,
partiti o raggruppamenti elettorali (pensiamo a Potere al Popolo) che
direttamente o indirettamente accettano il sentimento comune, i lavoratori non
sono in nessun modo responsabili della sfascio delle finanze statali, ma al
contrario sono i soli a pagarne le conseguenze.
Abbiamo inoltre la prova,
ulteriore, di quanto la democrazia borghese sia un inganno di cui beneficiano
banche e grandi gruppi borghesi. In nome di un inesistente "interesse nazionale"
(basti pensare che sono coperti da segreto di Stato anche i contratti che
regolano le concessioni autostradali), il governo si rifiuta di rispondere delle
sue azioni davanti al Parlamento che, secondo i cantori della democrazia al di
sopra delle classi, dovrebbe essere il solo garante della sovranità. E i
parlamentari, di ogni schieramento, abbozzano.
È più che mai ovvio quindi che
questo Stato non è uno strumento neutro, che regola il vivere civile di una
nazione, ma il comitato di affari della borghesia, per i cui interessi agisce a
scapito della maggioranza della popolazione, composta da lavoratori e sfruttati
in genere.
E' per questo che lo Stato non può essere riformato ma può e deve
essere rovesciato. I segreti che lor signori difendono noi li respingiamo in
quanto coprono truffe, inganni, ruberie ai danni di milioni di proletari. I
nostri soldi, la sanità, l’istruzione, le pensioni, sono finiti nei forzieri di
banche e assicurazioni. Solo con una lotta rivoluzionaria vittoriosa ci
riapproprieremo una volta per tutte del maltolto, e solo così creeremo uno Stato
nuovo, uno Stato dei lavoratori per i lavoratori, che non avrà segreti di sorta
da opporre al 99% che oggi continua a essere vessato fino all’ultima goccia di
sangue.
Note
La rivista L’Espresso ha
prodotto una serie di articoli sulla questione derivati e debito pubblico. Ne
citiamo due:
- Derivati, in un libro il perché dello scandalo. S.
Vergine 13/02/2017
- Buco dei derivati, finalmente qualcuno pagherà.
L. Piana 10/07/2017
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