Partito di Alternativa Comunista

Smart working nel capitalismo?

Smart working nel capitalismo?

 

Oppressione di genere


e nuova forma di sfruttamento!

 

 


A cura della sez. Pdac Roma *

 

 

Durante la pandemia i lavoratori in smart working sono passati da circa 570.000 a circa 8 milioni, soprattutto donne, che sono circa il 10% in più degli uomini, maggiormente nel settore pubblico rispetto al privato (circa il 15% in più).
In Italia, però, solo il 30% dei lavoratori ha la possibilità di svolgere da casa la propria prestazione; per le altre attività, invece, è richiesta la presenza, come per i servizi essenziali, oppure hanno dovuto essere interrotte, lasciando i lavoratori senza reddito.
Ma non tutti quelli che lavorano da casa, sebbene protetti dal rischio di contagio, sono esenti da impoverimento e sfruttamento: non parliamo solo di dirigenti o manager, ci sono anche una schiera di lavoratori con salari bassissimi, false partita IVA, lavoratori a progetto, precari, stagisti, operatori di call center, che hanno dovuto affrontare una serie di difficoltà che si sono sommate a quelle già note.


Il termine accattivante nasconde parecchie insidie
L’Italia ha una lunga storia di lavoro da casa, nel quale si sono annidate diverse forme di sfruttamento: basti pensare al settore tessile, che ha riguardato soprattutto le donne.
Secondo la legge che lo ha regolamentato, la legge n. 81 del 2017, che ha sancito l'evoluzione dal vecchio telelavoro adattandolo a un contesto produttivo in rapida evoluzione, il lavoro agile dovrebbe essere caratterizzato da una organizzazione flessibile, orientata al progetto e non basata su orari di lavoro rigidi, dalla volontarietà delle parti, che si esplicita in un accordo (purtroppo individuale), nel quale dovrebbero essere definite le modalità di svolgimento della prestazione. La libertà, però, è solo nella parola, perché, in realtà, il lavoro da casa rende più labile il confine tra l’attività lavorativa e la vita privata e, molto spesso, vincola ancora più strettamente il lavoratore.
Non esistendo una contrattazione collettiva, il rapporto di potere tra le parti è, evidentemente, sbilanciato. Il singolo lavoratore è alla mercé dell’azienda, che persegue il profitto, lucrando sui lavoratori, avendo la possibilità di decidere le modalità di svolgimento della prestazione.
Se, da un a parte, è vero che lavorare da casa consente di risparmiare i tempi dello spostamento e, certamente, contribuisce a ridurre l’impatto ambientale del trasporto, questo non si è tradotto in vantaggi per i lavoratori, i quali si trovano a essere a disposizione dell’azienda per molto più tempo di prima. Non c’è più distinzione tra il tempo di lavoro e il tempo di vita, si è praticamente sempre connessi.
Molti lavoratori affermano di sentirsi spinti a rispondere sempre alle chiamate, alle email o ai messaggi di colleghi e capi, ad essere disponibili più a lungo (per questo andrebbe previsto il diritto alla disconnessione). Il 46% di quanti lavorano da casa dice di sentirsi più ansioso e stressato, di lavorare almeno un’ora in più ogni giorno (ovviamente non retribuita). Il 18 % dice di avere difficoltà a dormire, ha la sensazione di non staccare mai, perché si trova ad usare lo stesso spazio, spesso in condivisione con gli altri familiari.


Controllo a distanza, violazione della privacy
Il lavoro digitale ha moltiplicato anche le occasioni di controllo a distanza degli operatori. Le nuove tecnologie, infatti, invadono continuamente la sfera privata del lavoratore. Basti pensare semplicemente alla videochiamata, oppure alla possibilità di rilevare continuamente la presenza dell’operatore davanti al pc e valutarne continuamente la prestazione; in tal senso si è pronunciato il garante della privacy attraverso il provv. 547/2016, con cui chiarisce che le modifiche del job act non consentano comunque «l'effettuazione di attività idonee a realizzare - anche indirettamente - il controllo massivo, prolungato, e indiscriminato dell'attività del lavoratore». Inoltre sempre il garante con provv. 303/216 sancisce che «non si possono utilizzare software in grado di monitorare l'attività lavorativa con modalità non percepibili dal lavoratore e in modo indipendente dall'attività svolta». Infine il provv. 467/2018 ha incluso nell'elenco dei trattamenti da assoggettare a DPIA (valutazione di impatto) «i trattamenti effettuati nell'ambito del rapporto di lavoro mediante sistemi tecnologici (anche video sorveglianza e geolocalizzazione) dai quali derivi la possibilità di effettuare un controllo a distanza dell'attività dei dipendenti)».


I padroni risparmiano, i lavoratori pagano
Molte aziende hanno accolto con favore l’incentivazione dello smart working, in quanto consente di tagliare molti costi, pertanto è plausibile che molte continueranno ad utilizzarlo anche quando non sarà più necessaria la tutela da eventuali contagi. Sui lavoratori, invece, ricadono molte spese fisse (riscaldamento o condizionamento, la rete di connessione, gli strumenti di lavoro, i dispositivi, l’energia elettrica). Addirittura in molti casi sono stati eliminati i buoni pasto per chi lavora da casa. Persino i costi della sicurezza (microclima, postazioni ergonomiche) sono a carico del lavoratore. Tutto questo però ha scaricato il c.d. rischio di impresa dal datore di lavoro al dipendente, in molti infatti sono stati costretti ad allestire postazioni lavorative e comprare scrivanie, pc, abbonamenti con fibra internet etc.
Particolarmente debole è la partita riguardante la tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro (obbligo del datore di lavoro), la 81/2017 art. 22 indica solamente che «il datore di lavoro garantisce la salute e la sicurezza del lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile». Che nei fatti si traduce soltanto nel dover fornire una relazione informativa annuale al lavoratore e al RLS, contenente i rischi generici e specifici connessi alla prestazione di lavoro. È ovvio che la sola consegna dell'informativa non può essere l'unica azione di tutela e prevenzione.
Se per alcuni uomini, il lavoro agile è stato un vantaggio, per la maggior parte delle donne, invece ha rappresentato un carico di lavoro più che raddoppiato, che le ha costrette a destreggiarsi tra l’attività lavorativa, la cura della casa e dei familiari, senza avere la possibilità di staccarsene mai, rafforzando, quella doppia oppressione cui sono già normalmente soggette nell’attuale sistema capitalista.
È evidente la brutalità con cui un pugno di miliardari, all’interno di una drammatica situazione di pandemia mondiale, ha trovato la scusa e il modo per rendere uno strumento di tutela della salute, di fronte a milioni di contagiati e morti, una macchina infernale di oppressione e sfruttamento. È chiaro come normative e fantomatici enti di controllo nulla possono garantire ai lavoratori di fronte alla fame di profitto di padroni senza scrupolo; è davanti gli occhi di tutti come il governo e le direzioni dei grandi sindacati (agenti della borghesia nel movimento operaio) siano totalmente sotto scacco di Confindustria e dei suoi capitalisti associati. Se mai fosse necessario, anche questa ulteriore testimonianza mette in luce la barbarie che questo sistema economico è in grado di produrre anche attraverso le varie forme di oppressione - in questo caso il maschilismo - come arma prediletta dalla borghesia per dividere, isolare e sfruttare determinati gruppi sociali. A tutto ciò bisogna rispondere con la lotta, unendo le rivendicazioni sindacali con quelle sociali, nel tentativo di far avanzare le coscienze di ampi spazi delle masse verso la lotta più importante, quella per l’abbattimento del capitalismo per l’unica società possibile senza più oppressione e sfruttamento, una società socialista.

* Con il contributo di Rosetta Ferra, operatrice call center Almaviva

 

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