Partito di Alternativa Comunista

Medio Oriente: l'unica via per la trasformazione

Medio Oriente: l'unica via per la trasformazione è la rivoluzione socialista!

La situazione politica, dalla Palestina all'Iran

 

di Francesco Fioravanti

 

 

La gran parte degli analisti politici concorda nel ritenere la regione mediorientale l'area del pianeta nella quale attualmente sono condensate le maggiori contraddizioni politico-sociali: la crescente radicalizzazione delle masse popolari di quei paesi, l'ingovernabilità di situazioni che si pretendevano essere pacificate e pacificabili, la decennale aspirazione di settori della borghesia locale di giungere ad un pieno sviluppo industriale, di certo contribuiscono a confermare le affermazioni di cui sopra.

Zona geografica ricchissima di vitali materie prime, fonte di continui appetiti per gli insaziabili stomaci degli imperialismi occidentali, di certo il Medio Oriente storicamente rappresenta un'area di cruciale importanza per le sorti dell'intero sistema capitalistico. Nell'attuale fase dello sviluppo economico, che si contraddistingue per un'accentuata dipendenza dai profitti realizzati dagli investimenti nel settore petrolifero, possiamo dire, con pochi margini di errore,  che esso è diventato l'epicentro dello scontro fra le potenze imperialiste. Di fatto, il controllo politico-militare di questa zona consente di attestarsi in posizione dominante nel nuovo scenario di concorrenza economica globale prodottosi dopo la caduta del colosso sovietico e la dissoluzione degli ex-stati operai deformati. In questo senso, il largo consumo di petrolio, divenuto fondamentale anche nella grande produzione industriale, e la rendita finanziaria legata all'ampio flusso commerciale dello stesso, sono elementi essenziali per spiegare le guerre condotte e quelle minacciate dagli Usa recentemente.

Negli ultimi anni l'emergere su scala mondiale di nuove potenze economiche, ha portato ad una concorrenza ancora più accanita per l'accaparramento dell'"oro nero" e delle altre materie prime destinate a sorreggere le economie a capitalismo avanzato. Questo fenomeno ha prodotto: da un lato alcuni tentativi di "smarcamento" di stati da lungo tempo legati da vincoli solidissimi con l'imperialismo americano (Arabia Saudita), dall'altro nuove inevitabili tensioni fra i grandi paesi per il controllo di un territorio che, come si osservava, può rivelarsi decisivo per le sorti del precario equilibrio che regge i rapporti fra le grandi potenze economiche.

In questo quadro generale debbono essere analizzate le vicende della "questione nucleare iraniana" e della crescita di consensi per Hamas sfociata nella vittoria alle recenti elezioni politiche palestinesi, due questioni di grande rilevanza che stanno contribuendo a rendere lo scacchiere mediorientale ancora più ingarbugliato. La lente d'ingrandimento del marxismo rende molto più facile il nostro lavoro. Proviamo a capire il perché.

 

L'Iran e l'atomica

 

L'Iran è sicuramente il paese sul quale sono maggiormente puntati gli inquietanti riflettori delle diplomazie occidentali. Inserito subito dopo l'attentato alle Twin Towers dal presidente Bush nella famosa lista degli stati-canaglia, esso è ora accusato dagli Stati Uniti e dalla triade europea (Gran Bretagna, Francia e Germania) di volersi dotare dell'arma nucleare per destabilizzare la regione e, magari, provare ad "abbattere" lo stato d'Israele (il quale, sia detto fra parentesi, continua a mantenere floridi rapporti economici con il suo "nemico giurato"). Quanto ciò che affermano i leaders occidentali corrisponde al vero e quanto è invece montatura propagandistica funzionale a giustificare un futuro intervento militare per rimuovere un regime poco propenso ad inchinarsi senza remore alla volontà e alle esigenze del capitalismo d'occidente?

Per comprendere l'intricata questione iraniana è necessario fare un piccolo balzo indietro nel tempo e soffermarci brevemente ad analizzare quello che rappresentò -e continua a rappresentare- quel grande evento di rottura che fu la rivoluzione teocratica condotta vittoriosamente a termine dall' ayatollah Khomeini, massima autorità dei musulmani sciiti. Ponendo fine al lungo dominio dello scià di Persia Rheza Palhavi -fedele alleato degli Stati Uniti e di Israele- ed andando a toccare elementi fondamentali della rendita petrolifera statunitense nel paese, la rivoluzione khomeinista si pose da subito nel solco dell'anti-americanismo e dell'anti-occidentalismo, vagheggiando sogni di emancipazione economica e culturale dalle due superpotenze (Usa e Urss) che dominavano allora il pianeta. Questo evento rappresentò la concretizzazione materiale della volontà di settori della borghesia iraniana di ricollocarsi in posizioni indipendente sullo scenario mondiale e ritagliarsi un ruolo importante nel controllo delle materie prime della regione allo scopo di trasformare i loro stati dipendenti in moderni e più avanzati stati capitalistici. L' attuale politica di Ahmadinejhad si inserisce nel solco tracciato da Khomeini e dai suoi successori. La volontà -nemmeno troppo celata- di arrivare in futuro all' "atomica", fa emergere le aspirazioni di una borghesia da tempo frustrata nelle sue aspirazioni di grandezza. Da qui l'opposizione degli Stati Uniti e dell'imperialismo europeo, bisognosi al contrario di un nuovo stato vassallo che consenta loro di sfruttare al meglio un territorio vasto e ricco di giacimenti petroliferi come quello iraniano. Se un attacco militare da parte del "gendarme" americano e dei suoi accoliti ancora non c'è stato, questo è dovuto al fatto che la situazione del vicino Iraq non consente di muovere passi in questa direzione: anche una super-potenza militare come quella statunitense deve fare i conti con la tenace resistenza della masse dei popoli oppressi che dimostrano quotidianamente di non voler facilmente piegarsi alle logiche di rapina che muovono le azioni dei grandi stati capitalistici.

Nell'intricata partita in questione, un ruolo non irrilevante lo giocano anche la Cina e la nuova Russia di Putin, le quali, questa volta, sembrano intenzionate a difendere con più forza rispetto al passato -anche recente- i loro interessi strategici nella regione: l'opposizione alla minaccia dell'intervento militare e finanche a sanzioni economiche stanno a dimostrare come Ahmadinejhad e il suo governo possano contare sull'appoggio concreto dei due giganti economici emergenti, i quali hanno da salvaguardare ingenti investimenti di loro aziende nello stato degli ayatollah. Ciò spiega in parte la sfrontatezza con la quale il presidente iraniano continua a dichiarare necessario il programma nucleare per il suo paese e mettere in dubbio la legittimità dell'esistenza dello stato sionista d'Israele.

 

Hamas e la Palestina

 

La vittoria conseguita da Hamas alle recenti elezioni per il rinnovo del parlamento palestinese è senz'altro il frutto di un malessere profondo che pervade le masse dei paesi arabi. La straordinarietà del risultato conseguito dalla formazione politica che si richiama all'integralismo islamico  è il risultato di un'esasperazione crescente del popolo palestinese, vessato da una decennale occupazione militare da parte dell'esercito sionista e da una gestione politica corrotta e affamatrice di Al Fatah, l'altra storica organizzazione politica  presente sul territorio palestinese. Un  aspetto molto importante del risultato delle elezioni politiche consiste nel fatto che con questa scelta i palestinesi hanno dimostrato la loro contrarietà agli accordi che precedentemente erano stati siglati dall' Anp dell'ex-leader Arafat con lo stato d'Israele, segno di una rinnovata disponibilità del popolo palestinese a battersi con vigore per veder realizzata la sua aspirazione storica: quella della conquista di un proprio stato e della distruzione di quello sionista-imperialista d'Israele. L'esito delle elezioni e la conseguente ascesa al potere del gruppo islamico ha seriamente preoccupato parte del mondo occidentale; con gli Usa schierati a sostegno aperto di Israele nella violenta campagna di diffamazione verso Hamas, fino ad arrivare ad un primo blocco dei finanziamenti -vitali per la gestione quotidiana dell'amministrazione palestinese- all' Anp. Consapevole di ciò, la stessa Hamas ha cercato fin da subito di ammorbidire toni e dichiarazioni allo scopo di salvaguardare gli interessi di una parte cospicua della borghesia palestinese -senza il sostegno della quale diverrebbe impossibile governare-, tutt'altro che disinteressata ha mantenere buoni rapporti con il capitalismo occidentale. Ecco perché nemmeno Hamas può dare le risposte necessarie ai bisogni delle masse palestinesi: il suo essere legata ad una parte cospicua della borghesia la porterà a sacrificare nuovamente sull'altare della governabilità le aspirazioni storiche della stra-grande maggioranza dei palestinesi. A dimostrazione ulteriore che la risposta non può venire -come ne caso iraniano- dall' islamismo politico.

 

Quale alternativa all'islamismo politico per il Medio Oriente?

 

Come tutti possono facilmente intuire la situazione dei paesi arabi, e mediorientali in generale, è potenzialmente esplosiva: la resistenza del popolo iracheno e di quello palestinese, la radicalizzazione politica delle masse in vari paesi, la crescente consapevolezza che l'emancipazione reale debba passare inevitabilmente per una trasformazione politico-sociale, sono tutti sintomi di come siano presenti gran parte delle condizioni oggettive per affrontare un percorso che sfoci nella trasformazione generale della società mediorientale. Proprio perché si danno queste condizioni siamo consapevoli che la guida di questa trasformazione non può essere assolutamente lasciata nelle mani delle borghesie nazionaliste che si fanno scudo della bandiera dell'Islam per veder realizzate le proprie aspirazioni di "grandezza nazionale". Se si vuol far sì che i bisogni delle masse dei paesi coloniali e semi-coloniali non vengano nuovamente tradite da direzioni tentennanti ed opportuniste, bisogna mettere all'ordine del giorno in quei paesi la costruzione di partiti conseguentemente marxisti e rivoluzionari. Non esistono scorciatoie, non ci sono terze vie, solamente sotto le bandiere dell'internazionalismo proletario sarà possibile per i popoli oppressi liberarsi dal giogo del colonialismo e sconfiggere la brutalità dell'imperialismo.

 

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